L’obiettivo dell’uso delle mutande elastocompressive è quello di creare un ostacolo alla fuoriuscita del contenuto erniario con l’applicazione di una compressione esterna.
È un presidio prettamente sintomatico, non accettato da una parte dei chirurghi, che non vedono in questo una risoluzione del problema, ma spesso sollecitato o scelto direttamente dal paziente per svariati motivi (paura dell’intervento chirurgico, paura dell’anestesia, problemi di lavoro ecc.).
Il perfezionamento dell’ anestesia loco-regionale, il trattamento in regime di day hospital e la notevole riduzione del tasso di recidive non hanno ridotto la richiesta di tale presidio, stimolando i costruttori nella ricerca di modelli sempre più perfezionati e personalizzati.
Tra gli svantaggi più importanti si annoverano problemi di tipo psicologico, legati principalmente ai rapporti relazionali (il cinto risulta molto invalidante a tale riguardo), così come problemi di tipo igienico.
La sudorazione determinata dalla presenza del cinto può portare, infatti, a irritazioni locali e dermatiti (soprattutto micotiche), spesso recidivanti e resistenti al trattamento.
È frequente, inoltre, la dislocazione del cinto, spesso determinata dal progressivo sfiancamento dell’anello inguinale interno, con formazione di voluminose ernie inguino-scrotali e conseguente inefficacia contenitiva.
Una conseguenza importante è la formazione di aderenze nei tessuti sottostanti, con esito in sclerosi e, quindi, difficoltà tecniche durante un eventuale trattamento chirurgico di ernioplastica.
Il cinto, pertanto, non risolve il problema erniario dal punto di vita fisiopatologico. Esso è in grado soltanto di rallentare l’ulteriore evoluzione dell’ernia. Inoltre, provoca nei tessuti sottostanti una sclerosi di difficile risoluzione chirurgica.